Mi chiamo Alima, vengo dall’Africa, ho ventidue anni, e quando ne avevo nove sono stata tagliata. Ricordo il terrore e il dolore, ricordo che furono  mia madre e mio padre a volerlo, ricordo che io non potei sottrarmi.

Quando vidi arrivare la donna che lo avrebbe fatto, cercai di scappare, ma mi ripresero subito, mi bloccarono le braccia e mi aprirono a forza le gambe. Io cercavo di chiudere le ginocchia, ma i miei piccoli muscoli non potevano nulla contro quelle mani forti, dure e senza pietà.

Mia madre cercava di rassicurarmi, mi diceva che sua madre lo aveva fatto a lei e a sua volta la madre di lei lo aveva subito, e così via andando indietro fino ai tempi più antichi. “E’ per il tuo bene,” diceva, “così troverai marito, nessuno dubiterà mai della tua purezza, altrimenti nessun uomo del villaggio ti vorrà sposare.”

In quel momento mi sentii sola in una voragine di paura, nell’attesa del dolore che sarebbe arrivato. Adesso so che non ero sola; nel mio paese il 90°%  delle donne tra i 15 e i 45 anni ha subito la stessa violenza, lo stesso sopruso.

Ma in quel momento non c’erano statistiche nella mia mente: calò la lametta, senza neanche la grazia dell’anestesia, e tagliò via la mia possibilità di vivere una vita normale, di provare piacere, di accogliere un uomo dentro di me senza riceverne solo dolore, di partorire in modo naturale.

Il dolore fu atroce, inimmaginabile! E non terminò quando tutto fu finito. No, il dolore mi ha accompagnato sempre da allora, quando cammino, quando devo urinare, quando arriva il ciclo. Non sono più stata in grado di giocare e correre con i miei fratelli, non sono mai più stata serena, perché combatto in continuazione contro infezioni e infiammazioni.

Oggi sono in Italia, sono arrivata qualche anno fa con mia madre su uno  di quei barconi della speranza che spesso diventano delle sepolture. A noi andò bene: siamo vive. Il villaggio dove sono nata, con le sue stradine di terra battuta e tanto deserto intorno, è solo un ricordo.

Ci ripenso senza nostalgia; per me è il luogo in cui l’osservanza della tradizione e il timore dello stigma sociale hanno permesso di rovinare, spesso di uccidere, tante ragazze. Già, perché io sono viva, ma mia cugina morì per le complicazioni di quell’intervento brutale e una nostra amica morì più tardi, di parto, visto che la testa del bambino non riusciva a passare dal piccolo orifizio che le avevano lasciato.

Oggi ho preso una decisione molto importante per me: ho accettato di  essere operata, in un ospedale, con l’anestesia, da dei veri medici che potranno riaprire e ricostruire la mia vagina, e forse anche ridarmi la sensibilità,  la femminilità che mi è stata rubata.

Ma non dovete credere che sia stata una decisione facile: mia madre è inorridita quando gliel’ ho detto e buona parte della comunità di connazionali che ci circonda ha cercato di dissuadermi. La motivazione delle donne è stata unanime: nessuno dei nostri uomini ti vorrà più, come farai a sposarti?

Non mi importa, non più. Ho un lavoro e vado anche a scuola serale; ho imparato bene l’italiano. Voglio una vita qua e sono decisa a costruirmela; non ho bisogno di un uomo che mi voglia ‘chiusa’ e sottomessa.  Certo, mi dispiace che mia madre non mi capisca, ma la vita è mia…me ne hanno già rubata abbastanza!